Una vacanza in Baviera
Quest’estate, in occasione di una breve vacanza in Baviera, mio figlio ed io abbiamo deciso di portare i ragazzi (14 e 11 anni) a visitare Dachau. A questo punto, però, mi sono chiesta come poter preparare una bambina di 11 anni ad affrontare una realtà inimmaginabile e, quindi, sconvolgente per una mentalità ancora immatura. Da dove cominciare? Per prima cosa le ho detto che quel giorno non saremmo andati, come le altre volte, a visitare musei, ma avremmo fatto una specie di pellegrinaggio in un luogo sacro, per cui non si dovevano fare fotografie. Lei, abituata a fotografare tutto quello che le sembra artistico o, quantomeno, degno di ricordo, è rimasta un po’ perplessa e non mi ha chiesto il perché, né io le ho dato spiegazione, ma mi sono limitata a ragguagliarla, per sommi capi, sulle vicende storiche che hanno trovato la loro tragica conclusione nel campo-carcere di Dachau.
Arrivati là, in una giornata caldissima e assolata, l’impatto emotivo è stato per me violentissimo: mi è sembrato che il mio cuore, anziché sciogliersi nel dolore, diventasse duro e insensibile come tutte quelle bianche pietre che ci circondavano. Per quello che riguarda mia nipote, ho avuto veramente timore che
si turbasse troppo allorché siamo entrati nella stanza di attesa delle “docce”, poi nelle camere a gas ed, infine, quando ci siamo fermati davanti ai forni crematori, il primo, rozzo e piccolo, ed il secondo, grande e ben costruito. Vedendo la bambina così immobile e silenziosa davanti a quelle nere bocche, ho cercato almeno di allontanarla dalle terrificanti fotografie che erano appese alle pareti perché, secondo me, un impatto emotivo così grande non necessitava di particolari per una più profonda conoscenza.
Nei “forni” c’è tutta l’idea dell’abisso a cui può giungere l’animo umano; ogni dettaglio è superfluo, un po’ come per la Pietà Rondanini di Michelangelo, che il grande pittore forse non ha voluto completare, pur avendoci lavorato per venti anni, proprio per lasciare dentro il marmo tutti i particolari dello strazio materno di fronte alla morte del figlio. A Dachau, però, a fine visita bisognava dare a mia nipote una spiegazione che preservasse in lei la speranza nel futuro, senza nulla togliere alla storicità dei fatti passati. Allora ho detto che era nostro preciso dovere, dunque anche suo, conoscere certe vicende, le loro cause e le loro conseguenze, perché non si ripetessero più. Poi ho anche aggiunto che, leggendo le testimonianze dei sopravvissuti, ho scoperto che non tutti chiedevano vendetta, ma alcuni volevano solo giustizia, riparazione di tanto male; a questo proposito, le ho portato l’esempio di quella giovane che, nel fuggi fuggi generale, durante la liberazione del campo, aveva trovato per terra una rivoltella e l’aveva puntata contro un kapò, anch’egli in fuga; all’ultimo momento, però, aveva saputo fermarsi, perché aveva capito che non stava a lei giudicare: il giudizio e la conseguente condanna l’avrebbe data qualcun altro.
Ho infine aggiunto che quand’anche una sola persona avesse agito così, ci sarebbe stata ancora speranza che certe tragedie non si ripetessero. La bambina è rimasta silenziosa ad ascoltare, non mi ha chiesto altro, ed io ho lasciato che rielaborasse da sé quanto aveva visto, senza aggiungere altro e senza più parlare.
Enrica Brunelli
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